L’evoluzione frettolosa della società digitale
Siamo davvero tutti consapevoli di essere in una nuova era digitale? Da quando l’attrice di Hollywood, Hedy Lamarr, per combattere i nazisti ha creato il Wi-Fi, ogni giorno, la tecnologia, fa passi da gigante, il tempo diventa inafferrabile e le novità fanno fatica ad essere assimilate.
La società corre fortissimo, il reale si confonde con il virtuale, le spaccature tra le generazioni aumentano e anche l’espressione “essere al passo con i tempi” diventa obsoleta.
La pandemia, che ha messo in pausa il mondo intero, ha determinato la svolta dei processi di digitalizzazione in ogni ambito della nostra vita. L’online in lockdown è diventato ancora di salvezza, contro solitudine e paura, mettendoci in contatto con gli altri, dandoci la possibilità di continuare una routine fatta di studio e lavoro ma è diventato anche, scoglio invalicabile per chi, ha scoperto improvvisamente di non saper fare una spesa online, pagare una bolletta, inviare una mail al proprio farmacista.
Il mondo a portata di mano che ha trasferito classi di alunni e insegnanti in piattaforme digitali ed ha fatto di casa, un ufficio per lo smart working, è diventato per anziani e over 60, anche molto spesso professionisti del mercato del lavoro, un mondo in cui sentirsi disorientati e impreparati.
Mi è capitato di partecipare ad un corso di alfabetizzazione digitale over 60, organizzato dall’associazione Anteas e di ascoltare alcune delle domande più frequenti: «Ho paura di premere quel bottone»; «Non voglio lasciare i miei dati personali»; «Non fa per me»; espressioni di felicità ma anche di delusione, senso di inadeguatezza, smarrimento.
È stata una partenza quella della rivoluzione digitale spiazzante per la società che fino a qualche anno fa, sfogliava le pagine gialle, sostituite dai motori di ricerca e usava il telefono solo per chiamare. Lo smartphone è diventato oggi, il prolungamento del nostro pensiero, il braccio delle nostre azioni, la porta di ingresso delle nostre vite, che stanno diventando sempre più metaversiche, più efficienti ma sempre più artificiali.
È stato chiesto improvvisamente ad ognuno di noi di resettare vecchi modelli di comportamento ed ingabbiarne di nuovi. I giovani, la cui crescita, è nel mutamento, hanno mostrato grande adattabilità e versatilità navigando nel mare magnum del digitale, molto spesso senza un capitano, in grado di guidarli nel bombardamento di stimoli, molti dei quali superflui. Ma sono anche loro che pur sapendone di più, fanno fatica ad entrare nel mercato del lavoro.
Tutti abbiamo uno SPID, paghiamo online, parliamo con gli assistenti digitali, ordiniamo al ristorante inquadrando con la fotocamera il QrCode, indossiamo occhiali da sole che scattano foto, ricarichiamo le nostre macchine con le colonnine in città sempre più smart, paghiamo i sinistri con assicurazioni a portata di click, culliamo i nostri bambini con carrozzine pilotate, addirittura generiamo i nostri avatar, con l’app Lensa, proponendo versione dei selfie con aspetto di miti, divinità e astronauti.
Siamo sicuramente più connessi, ma non tutti allo stesso modo, sempre meno presenti a noi stessi e agli altri, stiamo imparando a svolgere azioni quotidiane secondo modelli pavloniani di stimolo-risposta ma viviamo nel continuo tormento di imparare qualcosa di nuovo per non rimanere indietro. Digitalizzazione dunque come paradosso del progresso: “sono online, dunque esisto”.
A questo punto, bisognerebbe chiedersi, da qui, al 2050, cosa saremo diventati? Saremo tutti in grado di indossare tute aptiche, caschetti minimali e guanti sensoriali? Chi deve farsi carico di questo cambiamento? Chi deve fornire gli strumenti digitali? Quali sono le grandi opportunità e i rischi?
La società e le istituzioni, la scuola e l’università dovrebbero arginare le falle ed il divario generazionale. Non basta il bonus internet per le aziende, ci vorrebbero servizi di alfabetizzazione gratuiti, corsi negli uffici, nei centri anziani e magari formare figure professionali nuove, occupando per esempio i giovani, come tutor a sostegno di chi lo richiede.
Ormai lo sappiamo che non si può vivere senza essere parte integrante del processo digitale e che l’intelligenza artificiale sta diventando sempre più determinante. Nel settore giuridico, ad esempio, ci ha permesso di dare supporto al giudice nell’emissione delle sentenze o nell’interpretazione delle leggi. Nel settore medico, il “machine learning”, sta aiutando i medici nella definizione delle diagnosi e nella pianificazione delle successive terapie, senza ambire alla sostituzione del medico. Nel settore dei “social”, su Facebook, Twitter, TikTok, WeChat, l’intelligenza artificiale verrà utilizzata per fornire strumenti efficaci per una comprensione corretta dell’informazione, identificando, in tempo reale, le “fake” news.
Processi che hanno semplificato tanti ambiti della nostra vita, cambiato il nostro modo di comunicare, tra emoticon e Instagram stories ma che potrebbero scarnificare il nostro mondo emotivo. Potremmo diventare un popolo individualista senza memoria, senza album di fotografie da sfogliare, racconti da tramandare. Un popolo immobile che viaggia senza viaggiare, che mangia senza assaporare, che fa esperienze di ogni tipo ma senza viverle realmente.
Lavoreremo, faremo shopping, ci sposeremo nel Metaverso, saremo ovunque ma in nessun posto. Forse abbandoneremo anche i social network che fino ad oggi, ci hanno permesso di condividere le nostre vite, mettendole in vetrina. Saremo nel mondo ma fuori dal mondo senza più nemmeno coglierne le tante sfumature. Tutto funzionerà, forse meglio, l’errore umano verrà evitato, ma quanta vita reale si conserverà in questi processi? Si riuscirà a trovare un giusto compromesso tra uomo e macchina? Quale potrebbe essere la sintesi perfetta tra online e offline? Mentre stiamo qui a meditare su come sia giusto fare per prepararsi al cambiamento, qualcosa è già mutato.